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La breve vita felice di Francis Macomber - Ernest Hemingway
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La breve vita felice di Francis Macomber Ernest Hemingway

La breve vita felice di Francis Macomber - Ernest Hemingway
Era ora di colazione, e tutti sedevano sotto le due ali verdi della tenda da pranzo come se non fosse accaduto nulla.
– Cedro o limonata? – chiese Macomber.
– Per me vorrei un cicchetto, – disse Robert Wilson.
– Vorrei un cicchetto anch’io. Ho bisogno di qualcosa di forte, – disse la moglie di Macomber.
– Bene, – assenti Macomber. – Dite che ce ne prepari tre.
Il cameriere negro s’era già messo a prepararli, tirate fuori le bottiglie dal sacco refrigerante che trasudava, umido in mezzo al vento che muoveva gli alberi e l’ombra sulle tende.
– Che cosa avrei dovuto dar loro? – chiese Macomber.
– Poteva bastare una treccia di tabacco a testa, – Wilson rispose. – Non bisogna abituarli male.
– Se do tutto al loro capo, lui poi lo distribuisce?
– Potete star sicuro.
Mezz’ora prima Francis Macomber era stato portato in trionfo dal margine del campo fino alla sua tenda sulle spalle e le braccia dei negri: il cuoco, i servitori, lo scorticatore, i portatori. Solo i portatori di fucile non avevano partecipato alla manifestazione. Appena messo giù alla porta della sua tenda egli aveva stretto la mano a tutti, aveva ricevuto le loro congratulazioni, poi era entrato nella tenda e si era seduto sulla branda ad aspettare la moglie. Essa, arrivando, non gli aveva detto una sola parola. Perciò lui si era alzato, era uscito a lavarsi nel lavabo portatile, ed ecco, ora, sedeva, nell’ombra ventilata degli alberi, su una comoda poltrona pieghevole della tenda da pranzo.
Gli disse Robert Wilson: – Avete preso il vostro leone! E che bel leone!
La Macomber gettò una rapida occhiata a Wilson. Era una bella donna che si manteneva ancora bene. Non più di cinque anni prima, data la sua condizione sociale, poteva guadagnare cinquemila dollari raccomandando, con fotografia e firma, un prodotto di bellezza che non aveva mai usato. Era moglie di Francis Macomber da undici anni.
– Un gran leone, oh sí! – disse Macomber. E sua moglie guardò lui, ora. Guardò lui, e di nuovo l’altro, come se li vedesse per la prima volta. E di uno di loro, di Wilson il cacciatore bianco, non poteva dire d’averlo veramente visto prima. Era di mezza statura e rosso in faccia, i capelli color sabbia, i baffi a spazzolino, gli occhi di ghiaccio turchino, con agli angoli, quando sorrideva, un gaio incresparsi di sottili rughe chiare. Sorrideva a lei, adesso, e lei girò lo sguardo dal suo viso allo sghembo delle spalle sotto la giubba sbottonata, con quattro grosse cartucce nelle custodie al posto del taschino sinistro, alle sue grandi mani brune, alle sue vecchie brache, ai suoi polverosissimi stivali, e su di nuovo al suo viso. Osservò dove il color terracotta della sua faccia finiva in una linea chiara, segnata dal casco che ora era appeso a un piolo del palo della tenda.
– Col leone è già fatta, dunque, – egli disse. Quindi di nuovo le sorrise e lei, senza sorridere, portò interrogativamente lo sguardo sul marito.

Era molto alto, Francis Macomber, e costruito bene, per quanto d’ossa troppo lunghe, scuro di pelle; coi capelli corti come usa chi fa del canottaggio, labbra piuttosto sottili; passava per un bell’uomo.

Portava lo stesso genere d’abiti da cacciatore di Wilson, ma tutto a nuovo; aveva trentacinque anni, si teneva in forma, era in gamba per la selvaggina innocua, aveva battuto dei primati di grossa pesca, e adesso aveva dato prova, e ben pubblicamente, di essere, in fondo, un vigliacco.

– E’ fatta, col leone, – disse. – E non riuscirò a ringraziarvi mai abbastanza.

Margaret, la moglie, distolse gli occhi da lui, tornò a guardare Wilson. – Non parlate più del leone, vi prego, – disse.

Ora Wilson la guardò senza sorridere. E fu lei a sorridere, invece.
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